Lavoro & Crescita

Sussidi a confronto: i meccanismi Tedesco e Italiano di Filippo Palmeri

Sussidi a confronto: i meccanismi Tedesco e Italiano di Filippo Palmeri

[vc_row css=”.vc_custom_1454689420830{padding-left: 13% !important;}”][vc_column][vc_column_text]

Sostegni? Sì, ma alla tedesca

Per quanto riguarda gli aiuti Covid la Germania ha fatto decisamente meglio rispetto all’Italia per durata, tempistica e caratteristiche
L’ALG II° o il Kurzarbeit sono esempi di come ci sia sempre stata una visione diversa

[/vc_column_text][vc_empty_space][vc_column_text][eltdf_dropcaps type=”normal” color=”” background_color=””]C[/eltdf_dropcaps]IG ordinaria, CIG straordinaria, CIGO, CIGS, l’integrazione salariale in deroga (CIGD) e il reddito di emergenza (Rem). Questi sono i meccanismi dell’assistenzialismo in Italia, alcuni dei quali ante-Covid, altri approntati a pandemia in corso. Tutti indispensabili per tamponare l’emorragia economico-lavorativa, tutti però bisognosi di essere alimentati del rifornimento necessario: il denaro. In Italia gli interventi adottati per l’emergenza Coronavirus in materia di lavoro e reddito hanno comportato una spesa di 27 miliardi, due terzi dei quali destinati alla cassa integrazione, 3 miliardi e mezzo agli indennizzi per i lavoratori autonomi tanto per dare due numeri e rendere – in parte – l’idea. E in Germania? Cosa è successo nel paese che molto spesso si prende ad esempio per efficienza organizzativa e capacità gestionale di situazioni delicate?
Per far fronte alla crisi economica causata dal Coronavirus lo stato tedesco ha messo in atto ciò che la Cancelliera Merkel ha definito “la più grande misura di assistenza nella storia del paese”. Per sostenere le sue imprese la Germania ha utilizzato due principali tipi di intervento: le misure fiscali e le garanzie pubbliche. Per quanto riguarda le prime, nel 2020 hanno movimentato 156 miliardi di risorse (il 4,7% del Pil nazionale), mentre per le garanzie pubbliche la cifra è stata pari a 820 miliardi (il 24,9% del Pil), per un totale di 976 miliardi ai quali ne vanno aggiunti altri 130 che il governo aveva approvato extra nel giugno del 2020. Da un confronto tra i due totali, in percentuale del Pil, si denota che è un po’ più elevato per la Germania (tra misure fiscali discrezionali e stabilizzatori automatici lo stato tedesco movimenta l’8% del Pil oltre a fornire garanzie pubbliche per il 24,9%). Si vede chiaramente che rispetto all’Italia gli interventi discrezionali sono più elevati mentre la natura e gli obiettivi degli stessi è simile con una alta concentrazione sulle misure di cassa integrazione, sussidi e garanzie da parte di entrambi gli stati. Il governo federale tedesco ha adottato ingenti misure per contrastare l’aggravarsi del disagio economico e sociale dovuto alla pandemia, e lo ha fatto con il Pacchetto di Protezione Sociale I (marzo 2020), II (maggio 2020) e col III entrato in vigore il 1° aprile scorso. Ciò che si evince senza mezzi termini è che, relativamente alle misure sufficienti per contrastare la povertà, il modello tedesco è assai distante da quello italiano. Prevede per esempio un pagamento una tantum di 150 euro a tutti gli adulti che hanno diritto all’indennità di disoccupazione ma prevede anche la possibilità di ricorrere al cosiddetto Kurzarbeit, il “lavoro breve”, che permette, a seguito di requisiti specifici, di ridurre drasticamente le proprie ore di lavoro a parità di salario, praticamente una sorta di cassa integrazione dove lo stato provvede al pagamento di una parte dello stipendio. Secondo i dati dell’Agenzia Federale Tedesca a fine aprile 2020 avevano fatto richiesta di Kurzarbeit 10,1 milioni di lavoratori in Germania, un numero senza precedenti. Dai dati del nostro INPS emerge che nel corso del 2020 il numero di richieste giunte relativamente al sostegno, al reddito e all’occupazione, è stato di 20 volte superiore rispetto a quello dell’anno precedente, mentre dall’inizio dell’emergenza il numero dei lavoratori ai quali è stata erogata la prestazione è stato di 7 milioni, ossia il 57% del totale dei lavoratori assunti. La priorità è stata data al supporto della situazione reddituale senza progettazioni di risollevamento a breve o a lungo termine. Le differenze più significative riguardano la durata degli interventi e le tempistiche di erogazione delle risorse. Prendere il reddito di cittadinanza con la regola tedesca significa anche essere disposti a lavorare. Ed è proprio su questo aspetto che tutto cambia. Per chi prende il sussidio in Germania le politiche di inserimento e di ricollocazione nel mondo del lavoro funzionano alla grande, mentre in Italia, come si è visto fino ad oggi, collocare un percettore del reddito di cittadinanza è alquanto difficile. Nel 2020 il reddito da lavoro dell’italiano medio risultava di tre decimi inferiore rispetto al reddito medio italiano: se messi a confronto, il reddito tedesco risulta essere superiore del 30%. Lo scorso settembre il governo ha presentato la “Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza” (NADEF) con cui ha rivisto le stime sull’andamento della nostra economia formulate ad aprile e in cui la previsione di crescita del PIL per il 2021 è pari al 6% contro il 4,5% ipotizzato a primavera. A partire dai governi Schröder, la Germania è riuscita a mettere in piedi un sistema robusto ed efficiente di servizi per l’impiego pubblico e privato ‘prendendosi cura’ della disoccupazione; un sistema che si è rivelato efficace quando è scoppiata la crisi economica. Anche lì le imprese hanno fatto ricorso a sistemi di integrazioni salariali ma ne hanno beneficiato solo quelle che all’analisi hanno dimostrato effettive e rapide prospettive di recupero. Le restanti hanno chiuso e i loro dipendenti o sono rientrati nel circuito del Kurzarbeit oppure hanno preso a lavorare attraverso un insieme di servizi, incentivi fiscali e percorsi guidati ad una nuova occupazione.[/vc_column_text][vc_column_text]

Con le riforme progettate dalla Commissione Hartz nei primi anni 2000, il governo tedesco ha rivoluzionato il sistema degli ammortizzatori sociali. Al termine del primo semestre dell’anno la Germania vantava un tasso di disoccupazione molto contenuto (pari al 3,7%) a fronte del 7,7% dell’intera Eurozona. In Germania è inoltre attivo il programma Arbeitslosengeld II (Alg II), previsto dalla riforma Hartz IV (governo Schroeder, 2003) successivamente modificata dopo l’inizio della pandemia. L’importo stanziato ammonta a 15 miliardi, ossia all’1,5% del Pil tedesco (il più alto della zona Euro, mediamente dallo 0,3 allo 0,5%). I beneficiari del sussidio sono le persone abili al lavoro. L’importo per i single è pari a 432 euro mensili mentre per i conviventi ammonta a 389 euro mensili a testa. Dunque importi inferiori rispetto alla media dei 580 euro a nucleo familiare erogati in Italia. La differenza inoltre è racchiusa nella destinazione ad un maggior numero di persone. Il programma prevede anche la riduzione del sussidio del 30% per tre mesi se il beneficiario rifiuta di prendere parte a un corso di formazione o di accettare un lavoro mentre al secondo rifiuto dal 30% si passa al 60%. Al terzo non viene percepito nemmeno un euro per tre mesi. É opportuno che l’Italia prenda ad esempio la situazione tedesca, siamo convinti che alla lunga il sistema della cassa integrazione (soprattutto quella straordinaria e quella in deroga) sia uno strumento non sempre adatto, che ha già comportato una grossa ‘disattivazione’, con la retribuzione a persone che non lavorano e imprese che dovrebbero dismettere. In Italia, dunque, si registrano minori investimenti in tutte quelle politiche che consentirebbero una più rapida transizione da un posto di lavoro a un altro, da una professionalità meno richiesta sul mercato a una più ricercata, e invece assistiamo a una maggiore concentrazione di risorse destinate ai supporti occupazionali passivi. La cassa integrazione, estesa ulteriormente con la situazione pandemica, è uno dei capisaldi di questo sistema di welfare squilibrato, che spesso fa il bene di imprese fallite piuttosto che dei lavoratori. Preoccupa che molte imprese chiedano e ottengano di poter attingere alla Cig per i dipendenti anche in casi in cui non vi è alcuna ragionevole prospettiva di ripresa. C’è chi pensa che esiste una logica che vorrebbe che si procedesse alla chiusura dell’azienda, e che per i lavoratori si attivassero un buon trattamento di disoccupazione e un servizio efficiente di assistenza intensiva per il reperimento di un nuovo lavoro perché attivando la cassa integrazione i lavoratori non vengono incentivati a cercare una nuova occupazione regolare. La cassa integrazione viene utilizzata per nascondere situazioni di sostanziale disoccupazione, e tutto questo oltre a comportare un cattivo uso dei soldi pubblici produce anche un danno grave al lavoratore interessato. Il governo attuale si propone di riformare la questione partendo dalla revisione dei criteri di concessione ed utilizzo delle integrazioni salariali (la cassa integrazione potrà essere accessibile solo dopo l’esaurimento di altre possibilità) con l’obiettivo di creare un sistema che non debba far ricorso a risorse provenienti dalla fiscalità generale ma favorendo una riduzione strutturale del cuneo fiscale per le aziende che non espellono manodopera. Un buon punto su cui lavorare ma a nostro avviso c’è la forte necessità di ripensare l’intero sistema ormai obsoleto, che ha fallito ed è deleterio nel suo utilizzo. Urge un sistema nuovo che risollevi le imprese per davvero e quindi anche i lavoratori che ne fanno parte.

[/vc_column_text][/vc_column]

[vc_column][vc_column_text]

 

di Filippo Palmeri
Segretario Generale Confsal Fisals

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]