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L’IA sui banchi: fermarla non si può, educare all’uso sì

L’IA sui banchi: fermarla non si può, educare all’uso sì

L’intelligenza artificiale o IA, come si dice correntemente, è in grado di parlare tutte o quasi le lingue del mondo, di comporre canzoni e poesie in tempi rapidi, di sviluppare indagini statistiche e compiere calcoli ardui e insolubili per le singole persone; è in grado cioè di svolgere attività che soverchiano, per portata e complessità, le capacità di noi umani. È possibile, dunque, supporre che resti estranea alla vita scolastica e alla educazione dei giovani?

Per evitare di rispondere in maniera retorica, occorre considerare che l’IA è già parte costitutiva della nostra vita ed è già presente nelle scuole, visibile, come strumento didattico esplicitamente adottato, o invisibile, perché connessa ad altre tecnologie, delle quali tuttavia ha trasformato la natura. In sostanza, non ne possiamo fare a meno. Tuttavia, l’IA apre la strada anche a scenari che, in senso educativo, possono apparire non del tutto favorevoli o addirittura inquietanti. Occorre considerare, infatti, che c’è un forte rischio incombente sugli alunni (ma anche sui docenti) che è quello di appaltare a un soggetto esterno buona parte delle capacità intellettive. È abbastanza naturale, infatti, “esternalizzare” all’IA innumerevoli compiti, partendo dal riconoscimento che è in grado di svolgerli molto meglio di noi. Il problema, pertanto, è quello di non diventare passivi, inerti cerebralmente, perché – come suggeriscono le neuroscienze – “use it or lose it”, cioè l’uso di un certo network cerebrale ne rafforza il funzionamento, in caso contrario si indebolisce, talché si corre il rischio di atrofia per quelle forme di intelligenza i cui risultati sono raggiunti più agevolmente dall’IA. Dunque l’eventuale esternalizzazione di alcune funzioni cerebrali potrebbe produrre un’incapacitazione della mente in certi ambiti. A questo punto, è legittimo chiedersi se gli alunni debbano correre un tale rischio.

Inoltre, sempre muovendo il ragionamento dal punto di vista educativo e segnatamente da quello delle usuali pratiche di valutazione, come è possibile per gli insegnanti avere la certezza che un tema d’italiano sia stato svolto dall’alunno anziché copiato furbescamente dall’IA? Quest’ultima, definita propriamente come generativa, scuote i quadri collaudati delle pratiche scolastiche, proponendo nuovi paradigmi sui quali non vige la funzione securizzante delle tradizionali modalità di vita scolastica. Tuttavia, per avere una visione più complessiva del panorama scolastico in cui essa si inserisce, è opportuno considerare quegli ambiti in cui l’IA appare certamente utile. Vediamone alcuni.

Certamente l’IA è utile nelle attività gestionali, dacché consente di catalogarle, archiviarle, gestirle in funzione delle occorrenze e persino produrre atti amministrativi. Da questo punto di vista, può concorrere a potenziare l’efficienza dell’azione amministrativa in tempi molto più rapidi di quelli tradizionali.

I previsti trenta giorni di cui l’amministrazione dispone legittimamente per produrre risposte, certificazioni e altro ancora possono essere ridotti. Anche i dirigenti dovrebbero imparare a utilizzarla per le loro specifiche funzioni, comprese quelle di scrittura delle circolari. È evidente, infine, come la stesura dei verbali, che viene considerata una delle funzioni più “noiose” e problematiche durante i collegi dei docenti, i consigli di istituto e i consigli di classe potrebbe essere pressoché definitivamente risolta, evitando di assegnare a un insegnante il ruolo di verbalizzante, per rotazione. Sinceramente sono meravigliato come tutt’oggi, nonostante siano collaudate le funzioni di sintesi e di verbalizzazione dell’IA, tali potenzialità non siano usate dalle scuole.

Ho la sensazione che queste ultime, tradizionaliste per natura istituzionale, temano queste risorse per l’apparente difficoltà di uso che esse comportano. Aggiungerei – ma forse è una cattiveria – che quelle funzioni potrebbero attenuare anche la litigiosità dei collegi all’interno dei quali i docenti sovente disputano sull’interpretazione dei verbali, in particolare per ciò che attiene le delibere. Vien da pensare che il tasso esasperato di ermeneutica causidica che lì viene dispiegato costituisca un ingrediente sindacale, purtroppo intrinseco e irrinunciabile alla vita scolastica. Certamente l’IA non rappresenterebbe un soggetto adeguato ad alimentare dispute sofistiche sulla semantica delle parole. Soprattutto l’IA potrebbe essere utilizzata dai docenti per la preparazione delle lezioni e per la progettazione di planning didattici. Potrebbe trovare un uso appropriato anche nell’attività di correzione dei compiti, cioè in quella di natura “misurativa” che consiste nella individuazione degli elementi positivi di un compito o di quelli negativi, i cosiddetti errori (mentre quella valutativa in senso proprio non può che essere di stretta competenza dei docenti). Se non vengono attivate queste funzioni, è perché molti docenti non dispongono di un’alfabetizzazione digitale che consenta loro il dialogo con i sistemi informatici, il cosiddetto prompting. Ovviamente tutto ciò ha a che fare con la selezione del corpo docente, la quale dovrebbe implicare l’adozione di criteri qualitativi sempre più elevati (diversamente da quanto accade oggi, in cui le immissioni in ruolo avvengono perlopiù in termini di sanatoria) e con le attività di aggiornamento e formazione, praticamente affidate, nella loro obbligatorietà, alla quantificazione dei collegi dei docenti e per questo generalmente ridotte in termini minimali.

Ma l’aspetto più importante è quello dell’uso dell’IA come strumento didattico. La copiatura va trattata in questo contesto, dove – ciò non va dimenticato – quest’ultima viene considerata all’interno delle scuole (si vedano le ricerche di Marcello Dei) come un fenomeno scontato. Ovviamente non c’è alcuna “naturalezza” nel cosiddetto cheating e il fatto che la copiatura sia molto diffusa durante le prove di verifica, cioè i compiti in classe, non ne attenua il senso di malcostume, che in altri sistemi scolastici nazionali è molto meno diffuso. Su questo terreno occorre compiere una vera e propria rivoluzione culturale di natura deontologica, volta a far comprendere, fra l’altro, come la copiatura, se appiana in maniera fraudolenta il problema del voto, non risolve quello delle competenze effettive delle persone, le quali poi, nel corso della vita lavorativa, devono essere mostrate e non solamente attestate tramite quel voto. Tanto vale mettere a disposizione dei ragazzi l’IA, apertamente ed esplicitamente, consentendo loro di usarla tramite i vari device, che i ragazzi possiedono (in primis gli smartphone) e che comunque userebbero. Poi, tuttavia, occorre avere il coraggio di spostare gli apprendimenti sul piano metacognitivo, ad esempio mettendo loro a disposizione un testo generato dall’IA e chiedendo loro di elaborarlo creativamente.

In altri termini, varrebbe la pena di invitare i ragazzi a riflettere sui criteri, che sono di natura statistica, in base ai quali l’IA sceglie di comporre le sue risposte. Quel metalivello di analisi potrebbe favorire negli alunni una riflessione su come essi stessi apprendono e sollecitarli a sviluppare strategie di studio più efficaci. Si tratta del cosiddetto deuteroapprendimento, di cui ha parlato Gregory Bateson e cioè dell’acquisizione di una consapevolezza circa gli schemi adottati per l’apprendimento stesso. Se dovessi sintetizzare tutto ciò, direi che l’IA, nella sfida che ci pone, può essere il motore di sviluppo dell’intelligenza critica

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